Nasce con questo titolo una nuova pubblicazione, un quaderno di ricerche sull’evoluzione della fotografia in Piemonte. Il volume, curato da Pierluigi Manzone, con contributi di Fabio Bailo, Dora Damiano, Alessandra Demichelis, Pierluigi Manzone e Alberto Pignata, si presenta sotto forma di quaderno, dandoci subito l’idea di una collana e dunque una speranza di continuità. Scrivo queste righe con la passione che da sempre condivido con l’amico Pierluigi e con la strana e divertita paura di essere un giorno “schedato”, in quanto fotografo, dalla ricerca documentaristica, nella continuazione di “Un repertorio dei fotografi piemontesi. 1839-1915”. Il lavoro si presenta, per una sua umiltà concettuale, come un lavoro compilativo. Tuttavia questo termine non deve indurre a una lettura riduttiva. La raccolta di dati, che comprende necessariamente la ricerca, l’ordinamento, la scrematura e la stesura dei risultati, si basa su alcune premesse importanti che non sempre si ritrovano nei lavori di catalogazione. Manzone inizia mosso dalla passione per l’immagine fotografica, una passione non romantica ma metodica, e raccoglie negli anni fotografie: dagherrotipi, albumine, stampe ai sali d’argento. Le archivia e le protegge, mette in atto un atteggiamento di tutela, che è il riconoscimento del valore di un oggetto che attraversa il tempo e si trasforma in documento storico. Con l’aumentare della collezione scheda, riordina e inizia la ricerca dei metadati, delle informazioni collaterali all’oggetto, come il periodo di realizzazione della fotografia, la tecnica, l’autore e tutti i dati che riesce a reperire. A questo punto sposta la sua attenzione dall’oggetto al fenomeno sociale e con l’atteggiamento del ricercatore va nelle biblioteche, negli archivi delle camere di commercio, dei comuni e redige gli elenchi degli studi fotografici, dei fotografi, dei fondi già archiviati.
Perché dunque mi sono permesso di definire questo un atteggiamento di umiltà concettuale? Proprio perché il suo è un modo di lavorare monacale; per scelta (e per storia) si limita al lavoro elencato sopra, vuole tenere un profilo basso, ritenendo di non doversi (anche se lui dice “potersi”) arrogare il diritto di andare oltre. Quell’andare oltre che è studiare, trarre conclusioni dalla ricerca. Al di là delle scelte personali, questo atteggiamento dimostra una generosità non comune che andrà ricordata e riconosciuta per la peculiarità che il nome tecnico “base dati” contiene: l’essere la base di ogni lavoro futuro che intenda occuparsi della storia della fotografia nella provincia piemontese. Infatti, anche se non sono pochi gli scritti che si sono occupati dell’argomento, si tratta principalmente di monografie o cataloghi di mostre, sono lavori che per quanto importanti trattano sempre di un singolo fotografo e che dunque rendono meno immediato lo sguardo analitico comparativo. Così come lo studio, per quanto eccellente, svolto dalle università e dalle accademie, resta lontano dalle scuole ordinarie, lasciandoci in un analfabetismo visivo che in quella che è universalmente considerata la civiltà dell’immagine non può non far pensare che a un colpevole, deliberato, assordante silenzio. Da sempre, sappiamo che l’ignoranza rende l’uomo schiavo. È in questo paesaggio che il Fotonotiziario Cuneese, sostenuto dall’illuminata Biblioteca del Comune di Cuneo, assume un valore che va oltre il repertorio dei fotografi piemontesi, la bibliografia di Dora Damiano e i ricchi racconti sui professionisti locali curati da Alberto Pignata, Fabio Bailo, e Alessandra Demichelis. La fotografia nelle province, lontana dai Cartier Bresson, dai Capa, ma anche dagli italianissimi Alinari, è rimasta sempre relegata all’idea di bottega, di quotidianità e di commercio. Un po’, proprio, per un malsano e rivendicato provincialismo da sempre contrapposto alla presunta supponenza della città “capitale” che limita la circolazione delle informazioni vincolandole alle mode del momento più che a un normale logico progredire. Un po’ perchè gli operatori, i fotografi, hanno sempre privilegiato la crescita tecnica a quella culturale; viziati dalla “bottega” che relega lo studio della forma e della comunicatività all’idea di artisticità, che è riduttiva non solo nell’accezione popolare ma soprattutto nella sostanza, quando rimane veicolo pubblicitario commerciale e non diventa consapevolezza culturale. Non si dimentichi anche l’asservimento al Potere, che ancor oggi assoggetta il fotografo alla Questura per la tutela del buon costume. È su questo terreno che oggi può, perchè abbiamo detto è ora, nascere uno studio e un dibattito sull’immagine fotografica in provincia. Credo che questo lavoro abbia due possibili letture e due interessanti pregi. La prima, nell’immediato, ci mostra un repertorio che, per quanto puntuale, é per natura e negli intenti, da aggiornare nel futuro. Questo repertorio può essere oggi analizzato per trarre un quadro, non solo statistico, ma anche e soprattutto storico, del fenomeno. Un quadro storico che, proprio perché legato al territorio, può essere esportato, e confrontato, su altre regioni italiane. La seconda lettura, meno pragmatica, meno numerica, meno fenomenologica, ci porta in una dimensione temporale, invece, molto ampia. Questo lavoro arriva in un momento storico della fotografia interessante e determinante. Nel primo, e non ancora finito, decennio del nuovo millennio, la fotografia ha mutato i suoi fondamenti passando dalla chimica alla forma numerica, digitale. Questo cambiamento, che non intacca la radice del termine, scrivere con la luce, ha tuttavia segnato un confine ormai netto e imprescindibile. Ha sigillato un cambiamento di costume che dalla fotografia intesa come evento eccezionale e di documento temporale, é diventata ripetizione continua e a volte ossessiva del reale. Si é passati cioè dalla fotografia che ritraeva un paesaggio naturale o urbano elevandolo a memoria, ad una quantitá inguardabile di immagini dello stesso luogo. Un esempio per tutti é la prima immagine dell’interno della basilica di San Marco a Venezia che fu realizzata con una posa di tre giorni (non tre minuti o tre ore), mentre oggi statisticamente si calcolano in milioni le fotografie scattate nello stesso luogo. Allo stesso modo il ritratto, che era un momento sacrale della vita di una persona perché ne dimostrava lo status, l’esistenza, l’identitá, é diventato quasi un film continuo di immagini che ritrarrá la vita delle persone in modo cosí ridondante da creare un racconto senza rilievi, senza che un particolare evento risulti tale. Se dunque la foto-grafia ha mantenuto la sua essenza, é tuttavia innegabile che una fase della sua storia é chiusa ed é venuto il tempo di ragionarci su. Così se questo illuminato inizio editoriale avrà un seguito in una serie di quaderni in cui le persone potranno confrontare le esperienze e confrontarsi, potremo sperare nella nascita di un dibattito. Un confronto critico che ci insegni a capire che un’immagine contiene molteplici messaggi oltre all’estetica, che un’altra alfabetizzazione è necessaria.