Nel difficile periodo del secondo dopoguerra, mentre l’Italia cerca di risollevarsi, un giovane nobile torinese viene lasciato solo dai genitori per un anno. Immerso in un ambiente ospitale e quasi magico, tra antichi mestieri, la scuola di un tempo, il calore di una famiglia e di una comunità unita, scopre se stesso e il senso della propria esistenza, trovando la direzione da seguire nella vita.
Il villaggio si presentava come un insieme armonioso di costruzioni, adagiato lungo il fiume Bormida di Pallare. Per raggiungerlo, bisognava percorrere la strada che dall’entroterra, attraverso l’alta Val Bormida e il Colle del Melogno, conduce al mare.
I patti erano chiari fin nei minimi dettagli: sarei rimasto lì fino alla fine dell’anno scolastico. La maestra della scuola locale era già stata avvisata del mio arrivo e accoglieva con piacere un nuovo alunno nella sua pluriclasse di borgata.
Per il resto, sarei stato accudito in tutto e per tutto.
C’erano vitto e alloggio. Lo spazio in casa abbondava, un pagliericcio per dormire si trovava facilmente in campagna, e il cibo si sarebbe semplicemente diviso per aggiungere una porzione in più. Quanto alla legna nella stufa, d’inverno scaldava uno come mille.